CAMERA DEI DEPUTATI
COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI
Presidente on. avv. Francesco Paolo Sisto
23 ottobre 2014
Audizione del prof. Alessandro Pace*
con riferimento al d.d.l. cost. n. 2613 AC
Onorevole Presidente,
La ringrazio per l’onore fattomi per avermi invitato ad esprimere le mie valutazioni sul d.d.l. cost. n. 2613 AC.
Data la brevità del tempo previsto a mia disposizione mi limiterò a trattare dei problemi connessi alla modifica della forma di governo. Tuttavia ritengo doveroso premettere ai rilievi nel merito due rilievi pregiudiziali.
1. E’ a tutti noto che la ratio della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 è stata individuata dalla Corte costituzionale nella «eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto». Dovrebbe quindi essere intuitivo che un Parlamento nel quale perduri la «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa» – che, secondo la Corte, «ha determinato un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato» -, ammesso che possa esercitare la normale attività legislativa e di controllo (1), non può invece considerarsi legittimato a procedere a revisioni costituzionali, proprio perché l’abnormità del premio di maggioranza di cui ha beneficiato il PD con il solo 26/27 % – ancorché la effettiva consistenza elettorale del PdL e del M5S fosse pressoché eguale – condizionerebbe negativamente la legittimità di qualsiasi processo riformatore che coinvolga la Costituzione.
Quando la Corte costituzionale, nelle battute conclusive della sentenza n. 1 del 2014, afferma che «nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali», non si riferisce perciò alla consultazione elettorale del 2018. Si riferisce invece alle consultazioni elettorali conseguenti allo scioglimento anticipato delle Camere ai sensi dell’art. 88 Cost. Altrimenti, contro ogni senso logico e contro la stessa sua pronuncia d’incostituzionalità della legge elettorale, la Corte avrebbe indebitamente autorizzato, per i prossimi quattro anni, il perdurare di quel «vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato».
2. Il Governo, con il d.d.l. cost. n. 12613 AC, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle Disposizioni finali. Ne consegue che si tratta di una legge costituzionale dal contenuto disomogeneo che, qualora si pervenisse al referendum confermativo, si porrebbe in violazione della sovranità popolare e della libertà di voto, poiché coercirebbe gli elettori ad esprimere un solo voto sull’intero testo ancorché le modifiche della Costituzione siano varie e disparate. Un vizio che, com’è noto, non contraddistingueva invece il d.d.l. cost. n. 813 AS il cui art. 4 comma 2 prevedeva che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
E’ bensì vero che le modifiche degli articoli contenuti nei titoli I, II, III, e VI hanno una loro comune ispirazione in quanto tendono alla modifica dell’attuale forma di governo, ed in ciò rinvengono una loro omogeneità che ne evita l’illegittimità costituzionale. Non così invece quanto alle modifiche del titolo V, che tendono alla riforma della forma di Stato.
Ferme restando le obiezioni pregiudiziali di cui al § 1, sarebbe stato comunque opportuno scindere l’unitario d.d.l. cost. in due disegni di legge costituzionale: uno relativo alla modifica della forma di governo, il secondo relativo alla modifica della forma di Stato, come già era stato suggerito nell’audizione del 13 maggio 2014 dinanzi alla Commissione Affari costituzionali del Senato.
3. I problemi della composizione e delle funzioni della Camera e del Senato sono strettamente intrecciati.
E’ infatti indubbio che se venisse approvata, insieme con la modifica della forma di governo quale prefigurata dal d.d.l. cost. 2613 AC, una legge elettorale che prevedesse un premio alla coalizione o alla lista vincente tale da consentire all’una o all’altra di ottenere una maggioranza in seggi pur non avendo conseguito la maggioranza nei voti, si avrebbe come risultato una Camera dominata da una coalizione o da una lista non legittimata dalla maggioranza degli elettori: una Camera per giunta privo di contro-poteri, in conseguenza sia della diversa composizione delle due Camere, sia dalla notevole diversità di attribuzioni, sia infine dalla diversa fonte di legittimazione.
Sta di fatto che con i suoi 630 deputati a fronte del Senato composto da 95 consiglieri regionali e sindaci oltre a cinque senatori nominati a tempo determinato (sic!) dal Presidente della Repubblica, la Camera dei deputati – titolare in via esclusiva del rapporto fiduciario col Governo – eleggerebbe, praticamente da sola, in un Parlamento in seduta comune composto da 730 membri, sia il Presidente della Repubblica (per la cui elezione sono, tutt’al più, necessari i due terzi, e cioè 486 voti), sia un terzo dei componenti del CSM; sia tre dei cinque giudici costituzionali (2).
Il che è impensabile in una democrazia fondata sulla sovranità popolare nella quale «Il potere deve essere ripartito tra più soggetti ed organi in un modo tale che nessuno di essi sia in condizione di sopraffare gli altri. La pluralità degli organi costituzionali comporta che questi siano reciprocamente indipendenti e si trovino in una condizione di equilibrio che sia tale da garantire in modo effettivo il ruolo che a ciascuno di essi è attribuito» (3).
Di qui la seguente ineludibile alternativa. O passare al monocameralismo con un sistema elettorale proporzionale, con adeguate garanzie per la minoranza (4) e con il Senato composto bensì da consiglieri regionali e sindaci, ma dotato di soltanto poteri consultivi oppure, pur superando il bicameralismo perfetto – e quindi attribuendo alla sola Camera dei deputati, eletta con sistema maggioritario, il rapporto fiduciario col Governo – conferire al Senato, eletto dal popolo su base regionale, un maggior numero di componenti e maggiori poteri nell’esercizio della funzione legislativa.
4. Il Senato, nella configurazione ad esso data dal d.d.l. cost. in esame, si pone infatti in contraddizione con un altro principio fondamentale del costituzionalismo moderno.
In un sistema democratico nel quale la sovranità appartiene al popolo (art. 1 Cost.), quanto meno la legislazione in senso stretto (leggi ed atti con forza di legge) rinviene la sua legittimità nel “mandato” diretto che gli organi a ciò abilitati hanno ricevuto dal popolo.
Per contro, il d.d.l. cost. al nostro esame, attribuisce al Senato addirittura la partecipazione alla funzione di revisione costituzionale (5), la funzione legislativa ordinaria (pur con limiti e condizioni) (6) nonché l’elezione di ben due giudici costituzionali, e tutto ciò senza essere eletto a suffragio universale (7). E’ infatti un fuor di luogo definire “elezione“ la designazione, tra i propri componenti, compiuta dai Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano nonché fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori (8).
Né si dica – come ha osservato il Ministro delle Riforme – che se venisse ribadita l’elettività diretta del Senato, si dovrebbe allora riconoscere al Senato anche la titolarità del rapporto fiduciario. Mentre è la logica democratica ad imporre che la funzione legislativa debba essere esercitata da rappresentanti del popolo, il conferimento alla sola Camera della titolarità del rapporto fiduciario costituisce una soluzione di mero diritto positivo.
L’auspicata riaffermazione del principio democratico dell’elezione popolare dei senatori avrebbe oltretutto il merito di evitare che le funzioni di senatore venissero svolte contemporaneamente alla carica di consigliere regionale o di sindaco, come deriva dalla lettura congiunta dei commi 2 e 5 del “futuro” art. 57. Il che implica che il loro impegno sarebbe necessariamente part-time (9), con la conseguenza che, per risparmiare l’equivalente delle indennità dei 250 senatori eliminati, 95 senatori farebbero male sia l’uno che l’altro lavoro.
5. Ciò che ulteriormente preoccupa del d.d.l. in esame è che, grazie alla sproporzione del numero dei deputati rispetto a quello dei senatori, sarà in definitiva la maggioranza politica esistente alla Camera grazie al premio di maggioranza, ad eleggere il Presidente della Repubblica, ancorché nel Parlamento in seduta comune.
La soluzione “prudenziale” approvata dal Senato, secondo la quale, solo a partire dall’ottava votazione, 366 voti sarebbero sufficienti per eleggere il Presidente della Repubblica, non risolve il problema, potendo una maggioranza coesa facilmente oltrepassare quella soglia
Di qui una prima tesi, già ventilata da più parti, di integrare il corpo elettorale, composto al momento dai soli deputati e senatori, con degli elettori “aggiunti”: ma tale soluzione suscita dei problemi in ordine ai criteri di scelta degli elettori aggiunti, non potendosi ancora una volta ricorrere, come elettori “aggiunti”, ai consiglieri regionali, essendo il Senato già costituito da consiglieri regionali.
Più convincente è la proposta anch’essa avanzata da più parti, di risolvere il problema a monte, diminuendo il numero dei deputati e aumentando corrispondentemente quello dei senatori. In tal senso, da taluni è stata avanzata la proposta, accettabilissima, di eleggere 200 senatori e 450 deputati, pervenendo così alla stessa riduzione numerica dei parlamentari prospettata dal Presidente del Consiglio.
6. Ammesso pure il superamento del bicameralismo perfetto, deve comunque essere sottolineato che ci sono “tipi” di legge che non possono essere riservati alla sola Camera.
E’ il caso delle leggi di amnistia e di indulto; delle deliberazioni (abbiano o meno la forma della legge) concernenti il conferimento al Governo dei poteri necessari nelle situazioni assimilabili allo stato di guerra (vedi Iraq e Siria) e delle leggi di conversione dei decreti legge quanto meno nelle materie sulle quali il Senato potrebbe astrattamente esercitare la funzione legislativa. Il che costituirebbe un deterrente all’abuso della decretazione d’urgenza, come sembrerebbe rispondente allo spirito del “futuro” art. 77 (che si preoccupa degli abusi della decretazione d’urgenza) ma non alla prassi del governo Renzi (10).
Ed altrettanto dovrebbe dirsi per alcune categorie di leggi di maggior rilievo, come «quelle che disegnano il quadro autonomistico della Repubblica» (11) nonché le “materie” che “toccano” la vita quotidiana di tutti i cittadini – penso alla disciplina (12) della cittadinanza e all’istruzione scolastica e universitaria – per le quali sembrerebbe doveroso il procedimento bicamerale.
7. Sottolineo infine l’erroneità di attribuire al Senato il potere d’inchiesta limitatamente alle «materie di pubblico interesse concernenti le autonomi territoriali». Poiché l’acquisizione di informazioni mediante le commissioni d’inchiesta è storicamente finalizzata, in Italia come nelle altre democrazie, al miglior svolgimento delle funzioni parlamentari legislative e di controllo, il potere d’inchiesta, ancorché esplicitamente previsto in Costituzione, costituisce un potere essenzialmente “strumentale” (e quindi mai fine a sé stesso).
Pertanto l’anzidetta limitazione del potere d’inchiesta del Senato contraddice il conferimento ad esso del potere legislativo in materie di interesse generale, quali ad esempio la disciplina del referendum popolare, delle minoranze linguistiche, della famiglia e così via.
Infatti, delle due l’una: o si sostiene che la funzione legislativa del Senato è essenzialmente limitata a materie di interesse “non generale”, e allora la limitazione del potere d’inchiesta alle materie concernenti le autonomie territoriali sarebbe pleonastica. Oppure si riconosce che le materie attribuite collettivamente alla funzione legislativa del Senato e della Camera superano gli interessi territoriali delle Regioni e degli enti locali. Ebbene, in questo secondo caso vi sarebbe una limitazione aprioristica del potere d’inchiesta senatoriale, posto che, come accennato, il potere d’inchiesta ha natura strumentale per il migliore esercizio delle attribuzioni.
Per cui una volta attribuita una competenza materiale ad un’assemblea, è illogico disconoscerle il relativo potere d’inchiesta.
* Professore emerito di diritto costituzionale nell’Università “La Sapienza” di Roma.
(1) Ciò deriva dalle esplicite indicazioni date dalla Corte al legislatore sui criteri da seguire per la “nuova” leggi elettorale
(2) Il “futuro” art. 135, concernente l’elezione dei giudici costituzionali, è formulato in maniera diversa dall’art. 135 in vigore, il quale prevede l’elezione di cinque giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune. Dal canto suo l’art. 55 Cost., pur modificato nei primi commi, continua a statuire, nell’ultimo comma, che «Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione».
(3) Il punto è pacifico tra i costituzionalisti. In tal senso per tutti v. G. Guarino, Riflessioni sui regimi democratici, in Pol. dir. 1991, p. 3 ss., ora ripubblicato in Id., Dalla Costituzione all’Unione europea, vol. IV, Jovene, Napoli, p. 383.
(4) … tra cui il dovere di istituire una commissione parlamentare dì inchiesta quando ne faccia richiesta una minoranza qualificata. Così nei due subemendamenti dei senatori Casson e altri e Morra e altri, respinti dal Senato nel luglio scorso
(5) V. il “futuro” art. 70 comma 1
(6) V. i “futuri” artt. 55 comma 3, 57 ult. Comma, 70.
(7) Condivide la scelta del d.d.l. cost. Renzi–Boschi, senza però affrontare il problema della legittimazione democratica della legislazione (tema invece ricorrente nelle prese di posizione di Lorenza Carlassare), V. Onida, Condivisibile il progetto sul bicameralismo, bene limitare l’uso dei decreti, ma il capitolo sulle autonomie non rispetta lo spirito della Carta, nel Corriere della sera, 29 settembre 2014.
(8) V. il “futuro” art. 57 commi 2 e 3. In questo senso v. S. Merlini, Quattro passi fra le nuvole (rileggendo gli Atti dell’Assemblea Costituente sul problema della elettività del Senato della Repubblica), in www.osservatoriosullefonti.it , n. 2/2014.
(9) In un’intervista il Ministro Boschi al Corriere della sera ha suggerito che i senatori dovrebbero essere presenti due giorni in sede locale e tre giorni a Roma (o viceversa, non ricordo esattamente).
(10) V. Onida, Condivisibile il progetto sul bicameralismo, cit
(11) V. Onida, Condivisibile il progetto sul bicameralismo, cit
(12) V. il “futuro” primo comma dell’art. 82 Cost.