Gaetano Quagliariello, ministro per le Riforme Costituzionali
AUDIZIONE LINEE PROGRAMMATICHE
Commissioni riunite Affari Costituzionali
(mercoledì 22 maggio 2013)
Le premesse politiche
Il tema delle riforme costituzionali accompagna il dibattito politico italiano da oltre trent’anni. Da allora innumerevoli sono state le iniziative, le proposte, i tentativi di modernizzare la nostra democrazia. I risultati raggiunti, tuttavia, sono stati inferiori alle aspettative: alcune riforme settoriali, talvolta anche importanti (l’articolo 81 Cost.); una riforma organica ma dall’esito contraddittorio (il Titolo V); qualche piccolo aggiustamento, oltre ad alcune limitate riforme regolamentari, che hanno però mantenuto sostanzialmente inalterato l’impianto del sistema.
Ciononostante, il nostro assetto politico-istituzionale è cambiato profondamente. In primo luogo perché è mutata la domanda politica che viene dalla società: le identità novecentesche si sono sfarinate, le dinamiche sociali si sono velocizzate, l’internazionalizzazione ha rivoluzionato il ruolo dei pubblici poteri nel governo dei processi economici. Ma, a fronte di questi potenti fattori di cambiamento, l’onere dell’adeguamento del sistema è stato interamente caricato sulle spalle delle riforme elettorali che si sono succedute nel tempo.
La legge elettorale, sia chiaro, ha un peso non secondario nell’orientamento della configurazione istituzionale. Ma per essere realmente efficace, deve essere inserita in un coerente contesto di norme costituzionali e regolamentari. Viceversa, è stata proprio la scelta di affidarsi completamente alle sole virtù salvifiche del sistema elettorale la causa prima delle difficoltà e delle inefficienze che sono sotto gli occhi di tutti. Del resto, si tratta di un errore con il quale il nostro Paese fa i conti ormai da un secolo.
Il tema del cambiamento istituzionale è dunque uno snodo ineludibile, una delle priorità per il Governo e per il Parlamento. Ciò per molte ragioni, fra le quali in questo momento di crisi mi preme sottolineare il valore anche economico rappresentato da istituzioni che funzionano. Vi è un’ampia letteratura internazionale a dimostrare che l’architettura dello Stato non è un trastullo per politologi e costituzionalisti: al contrario, l’efficienza istituzionale è una variabile fondamentale per la competitività del sistema economico, e quindi per la sua capacità di affrontare la recessione in atto e le pesanti ricadute sociali.
Paradossalmente, il costo di istituzioni inefficienti può essere assorbito nelle fasi espansive del ciclo economico ma diventa insopportabile proprio nelle fasi recessive. L’Italia ha pagato questo costo in misura crescente negli ultimi trent’anni. A differenza delle altre grandi democrazie dell’Occidente, da tempo interessate da processi di riforma, all’appuntamento con la competizione globale il nostro Paese si è trovato sguarnito di strumenti adeguati alla portata delle decisioni da assumere. Fino alla situazione di stallo, che avrebbe potuto divenire di autentica paralisi, determinata da una crisi del sistema politico divenuto di fatto tripolare, e da una sorta di “default” del sistema istituzionale, gravato non solo dalla debolezza strutturale dell’esecutivo ma anche da un bicameralismo paritario ormai unico al mondo e da una legge elettorale concepita per un quadro bipolare, con coalizioni che raggiungevano, ciascuna, quasi la metà dei consensi elettorali.
L’eccezionalità della situazione è testimoniata dal fatto che per superare lo stallo si è dovuto ricorrere alla inedita rielezione del Presidente della Repubblica uscente, opzione che il dettato costituzionale – come sottolineato dallo stesso Presidente Napolitano – aveva riservato a tempi fuori dall’ordinario.
Non a caso, all’atto del giuramento, il Capo dello Stato ha incentrato il suo messaggio sulle riforme non realizzate, fino all’estremo ammonimento che ritengo doveroso ricordare: “Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese. Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.”.
E del resto tale consapevolezza è una delle “ragioni costituenti” dello stesso Governo, come dimostrato non solo dalla scelta di nominare un Ministro per le Riforme costituzionali, ma anche e soprattutto dal carattere “condizionante” delle riforme rispetto all’intero mandato dell’Esecutivo, solennemente sancito dal Presidente del Consiglio Enrico Letta che nel chiedere la fiducia in Parlamento ha affermato: “Dal momento che questa volta l’unico sbocco possibile su questo tema è il successo nell’approvazione delle riforme che il Paese aspetta da troppo tempo, fra diciotto mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il processo di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare. In caso contrario, se veti e incertezze dovessero minacciare di impantanare tutto per l’ennesima volta, non avrei esitazione a trarne immediatamente le conseguenze”.
Perché dalle astratte declamazioni si possa giungere a risultati concreti bisogna tuttavia guardarsi da due pericoli speculari: il conservatorismo costituzionale e l’accanimento modellistico.
Il primo, sulla scorta dell’idea che la nostra sia la Costituzione più bella del mondo, induce a rifiutare qualunque intervento su di essa che non sia di mera manutenzione. Ogni disegno di riforma viene bollato come attentato alla democrazia, come sintomo di una deriva autoritaria. In realtà, non è oggi in discussione il valore della Costituzione italiana; nessuno immagina di lavorare per adottarne una nuova e diversa, nessuno ne mette in discussione i principi fondamentali o la prima parte relativa ai diritti e doveri dei cittadini. La Carta del 1947 rappresenta storicamente un nobilissimo compromesso che ha reso possibile quello che chiamiamo “miracolo costituente”. Oggi si tratta solo di verificare se la parte seconda sull’ordinamento della Repubblica sia adeguata ai tempi o viceversa richieda un profondo ripensamento, soprattutto nei tre capitoli cruciali relativi alla forma di Stato, alla forma di governo e al bicameralismo, che i padri costituenti nelle temperie della guerra fredda affidarono alle successive generazioni.
Il secondo pericolo da schivare è quello dell’accanimento modellistico. Tante discussioni senza risultati concreti hanno infatti confinato il tema delle riforme nella categoria delle dispute teoriche e accademiche, nella quale ciascuno è portato a sostenere con rigore inflessibile la superiorità del proprio modello rispetto a tutti gli altri. Ma un approccio simile, per certi versi fisiologico in un ambito accademico o speculativo, se trasferito nella concreta dinamica politica non è solo sbagliato: è anche pericoloso perché è il miglior modo per non concludere nulla. Lavorare sul tema delle riforme non vuol dire disegnare il modello costituzionale astrattamente ideale da calare dall’alto sul sistema sociale e politico. La Carta fondamentale di un Paese non è un bellissimo e solenne documento consegnatoci dalla Storia. Le Costituzioni sono materia viva e vitale, che evolve continuamente e che, proprio per salvaguardare l’originario spirito costituente, in alcune fasi storiche richiede di adattare ai mutamenti intervenuti le regole che governano il funzionamento della nostra democrazia.
Il merito delle riforme
Il tema delle riforme istituzionali, com’è naturale, abbraccia numerosi aspetti. Anche se si tratta di profili tutti meritevoli di attenzione, credo che in prima battuta sia opportuno focalizzare alcuni nodi che, se adeguatamente risolti, potrebbero preludere a un organico intervento di riforma.
Il pilastro fondamentale del disegno riformatore è naturalmente quello della forma di Governo. L’obiettivo è un assetto che garantisca la formazione di esecutivi stabili, sorretti da maggioranze certe e durature, e in grado di assumere le decisioni necessarie per incidere con efficacia e risolutezza sul tessuto socio – economico del Paese, traghettandolo verso l’auspicata modernizzazione.
A tale riguardo, abbiamo di fronte due strade: la forma di governo parlamentare razionalizzata e il semipresidenzialismo secondo il modello francese. Si tratta certamente di due forme di governo democratiche, ciascuna delle quali, con i necessari contrappesi istituzionali, può assicurare governabilità, equilibrio tra i poteri e garanzia per i diritti dei cittadini. La scelta fra le due opzioni è naturalmente delicata ma credo non debba essere esasperata, poiché si tratta in entrambi i casi di modelli che possono raggiungere risultati eccellenti. Piuttosto, tale scelta deve essere il frutto non tanto di una preferenza astratta e teorica, quanto di un’analisi puntuale e concreta del contesto storico, sociale e politico nel quale il nuovo modello andrà a calarsi. Grande attenzione va attribuita, ad esempio, all’evoluzione del sistema partitico italiano negli ultimi decenni, ai fenomeni sempre più marcati di scollamento fra politica e opinione pubblica, al contesto europeo che richiede una accresciuta capacità di negoziazione.
Tali elementi inducono a valutare se nell’attuale fase storica non sia preferibile adottare un sistema che, grazie all’elezione diretta del Presidente della Repubblica e all’introduzione di adeguati contrappesi istituzionali, sia più idoneo a restituire legittimazione e capacità decisionale alle istituzioni elevando al contempo il grado di trasparenza e di accountability del potere.
Qualora invece dovesse essere confermata la scelta in favore della forma di governo parlamentare, bisognerà naturalmente razionalizzare il sistema per garantirgli un adeguato grado di efficienza, evitando quelle degenerazioni del parlamentarismo che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni e che erano già oggetto delle preoccupazioni dei Padri costituenti, come testimonia il famoso quanto disatteso ordine del giorno Perassi approvato nel 1946. In questa prospettiva occorrerà valutare interventi sul procedimento di concessione della fiducia parlamentare, sulla nomina e revoca dei ministri, sul potere di scioglimento delle Camere, sulle prerogative del Governo in Parlamento.
Strettamente legata alla forma di governo è la questione della riforma della legge elettorale. La legge elettorale è uno strumento – decisivo, ma pur sempre uno strumento – che serve a rendere coerente ed efficace il modello istituzionale prescelto. Non avrebbe dunque alcun senso compiere oggi una opzione stabile in favore di questo o quel sistema di voto senza sapere se la meta del percorso riformatore sarà Parigi, Londra o Berlino.
Ciò naturalmente non esclude la possibilità di interventi immediati e mirati sulla legge elettorale vigente, per eliminarne i difetti più evidenti, a più riprese segnalati dalla Corte costituzionale e dallo stesso Presidente della Repubblica. Del resto, l’iniziativa assunta dalla Corte di Cassazione rende il tema non più rinviabile. Non sarebbe in alcun modo auspicabile che la scelta di proseguire la legislatura derivasse non dal perdurare dell’accordo che sostiene l’attuale Governo, ma dall’impossibilità di celebrare nuove elezioni per inidoneità del sistema di voto. Pertanto, ritengo che in questa prima fase sia necessario un intervento di “salvaguardia” che renda certamente costituzionale il sistema vigente e, “sterilizzando” il problema immediato della legge elettorale, agevoli il percorso complessivo di riforma istituzionale, all’interno del quale anche il tema della legge elettorale troverà una compiuta definizione.
Altro tema centrale è il superamento del bicameralismo paritario e simmetrico, una delle cause di malfunzionamento del nostro sistema istituzionale. La soluzione sulla quale si registra un ampio consenso è quella di una sola Camera politica che esprime la fiducia al Governo e di una seconda Camera rappresentativa delle autonomie (Senato delle regioni e delle autonomie). La Camera dei Deputati, eletta a suffragio universale e diretto, diverrebbe titolare dell’indirizzo politico, avrebbe competenza esclusiva sul rapporto fiduciario, esprimerebbe il voto definitivo sui disegni di legge. Il Senato sarebbe costituito da tutti i Presidenti di Regione e da rappresentanti delle Regioni (ed eventualmente dei Comuni), eletti da ciascun Consiglio Regionale in misura proporzionale al numero degli abitanti. Nel nuovo quadro il Senato, oltre ad assorbire le competenze del sistema delle Conferenze, parteciperebbe al procedimento legislativo.
Ulteriore questione ampiamente condivisa è la riduzione del numero dei Parlamentari. Il problema si pone autonomamente ma, com’è ovvio, dovrà trovare una soluzione coerente con la riforma del nostro assetto bicamerale. A mio avviso, l’obiettivo deve essere quello di un allineamento agli standard europei nel rapporto parlamentari-elettori, operando una forte riduzione del numero degli attuali deputati e degli attuali senatori che andranno a comporre la nuova Camera politica.
In questo contesto, di grande importanza sarebbe anche una rivisitazione dei regolamenti parlamentari da parte delle Camere, per migliorarne il lavoro e in particolare snellire l’iter di approvazione delle leggi. Nel momento in cui saranno messi a disposizione del Governo strumenti idonei a realizzare con efficacia e tempestività il proprio programma, tra l’altro, potrà concretizzarsi l’intenzione manifestata dal Presidente del Consiglio di porre un limite all’abuso della decretazione d’urgenza e al ricorso sistematico alla questione di fiducia su maxi emendamenti, che negli ultimi decenni hanno logorato il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo e inciso negativamente sulla qualità della produzione normativa.
Veniamo dunque agli istituti di democrazia diretta, da rivedere al fine di favorire una più intensa e più responsabile partecipazione dei cittadini alla vita politica della Nazione. Penso ad esempio all’obbligatorietà del referendum confermativo sulle leggi di revisione costituzionale. Penso anche alla revisione della legge sul referendum abrogativo per adeguare all’aumento della popolazione il numero di sottoscrizioni richieste; definire con maggior precisione i requisiti di ammissibilità e anticiparne il giudizio; modificare la disciplina del quorum di validità del risultato sulla base della percentuale dei votanti; formalizzare il divieto, per un periodo determinato, di ripristino della norma abrogata. Interventi ulteriori potranno riguardare le proposte di legge di iniziativa popolare e, su un piano differente, la disciplina che regola il dibattito pubblico sui grandi interventi infrastrutturali (sul modello adottato da altri Paesi europei).
E ancora. E’ opinione quasi unanime che l’attuale “policentrismo caotico” debba essere superato attraverso la revisione della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni (art. 117) come individuate nel titolo V della Costituzione. Diverse sono le opzioni sul tappeto. In ogni caso, appare indifferibile un riordino dei criteri di riparto delle competenze fra i diversi livelli di governo che ponga fine alla eccessiva frammentazione che oggi rappresenta un fattore di grave complicazione istituzionale. Allo stesso tempo, occorre restituire allo Stato quella essenziale funzione di coordinamento finalizzata da un lato a garantire i diritti fondamentali sul territorio nazionale, e dall’altro a promuovere i migliori modelli organizzativi recuperando le situazioni di inefficienza. Un equilibrato sistema di governo multilivello deve essere in grado di coniugare i principi di responsabilità e di solidarietà.
Infine – e concludo questo capitolo – andranno portati a compimento anche gli interventi relativi alle istituzioni locali (parliamo del problema delle Province, rimasto bloccato, del governo comunque necessario delle aree vaste, della questione della dimensione ottimale dei comuni), e gli interventi relativi alla riforma della finanza locale e regionale avviata con il federalismo fiscale.
Veniamo ora ai costi e al funzionamento della democrazia. L’esigenza di un rafforzamento complessivo dell’etica pubblica e di un recupero della fiducia dei cittadini nelle istituzioni, impone una rivisitazione dei costi della politica e in particolare dei suoi meccanismi di finanziamento, secondo canoni di sobrietà e trasparenza che peraltro ben si coniugano con il processo in atto di contenimento della spesa pubblica. Tale consapevolezza naturalmente non può in alcun modo oscurare un altro dato incontestabile: la democrazia ha un costo che, per una sua parte incomprimibile, non può essere disconosciuto. Se dunque da un lato deve essere abrogata l’attuale legge sul finanziamento ai partiti, dall’altro è necessario definire nuovi meccanismi che rendano tale costo sostenibile.
Diversi sono gli interventi possibili. Occorre ad esempio ricondurre i rimborsi elettorali alla loro reale funzione: non finanziamento elettorale mascherato, ma rimborso effettivo commisurato nei tempi e nelle misure alle spese sostenute e documentate per la campagna elettorale. Quanto invece alle necessità strutturali dei partiti, si impongono interventi fiscali e di semplificazione che incentivino la partecipazione diretta dei cittadini al finanziamento della politica. Infine, appare opportuno che lo Stato sostituisca l’erogazione diretta di denaro con la fornitura di servizi in ogni caso in cui ciò sia possibile.
Il vero rischio da scongiurare è quello di un cattivo finanziamento. Oltre al dato quantitativo, altrettanto importante è la questione dei criteri e delle modalità per l’utilizzo delle risorse. La completa assenza di regole in proposito ha reso possibile e in qualche modo favorito il diffondersi di gestioni opache e “autoreferenziali”. Accanto agli interventi sul versante del finanziamento, ritengo dunque opportuno che il Parlamento affronti il tema dello statuto dei partiti politici in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
La rilegittimazione dei partiti politici come strumento a disposizione dei cittadini per partecipare alla vita politica del Paese, passa infatti anche attraverso un aumento della trasparenza della loro vita interna, che ne garantisca un orientamento verso il bene comune e la responsabilità nazionale. Nessun sistema di finanziamento della politica può essere efficace nell’assicurare al contempo uguaglianza e trasparenza nella competizione, se lo stesso non è strutturalmente connesso a un sistema di regole che garantisca la democraticità dei partiti politici. Naturalmente, qualunque intervento in materia dovrà scrupolosamente farsi carico di trovare un punto di equilibrio fra il principio di libertà di associazione politica – un fondamento di ogni democrazia – e le altrettanto importanti esigenze di legalità e trasparenza. In questo senso, ritengo che in nessun modo una disciplina dello statuto dei partiti politici possa diventare elemento condizionante la possibilità stessa di movimenti o associazioni di partecipare alla competizioni elettorali.
Concludo questa panoramica essenziale segnalando la necessità di una regolamentazione dell’attività di lobbying, in grado di evitare ingiuste demonizzazioni ma anche di scongiurare che l’attività dei gruppi di pressione possa indebitamente inquinare la vita democratica e alterare la concorrenza.
Il metodo della riforma
Accanto alle questioni di merito, assume un carattere dirimente e sostanziale la definizione di un metodo per le riforme che renda il percorso allo stesso tempo più fluido e più solido. Su questo punto nelle ultime settimane si è concentrata l’attenzione dell’opinione pubblica, grazie anche al contributo di autorevoli commentatori.
Al riguardo occorre grande chiarezza. La definizione di un metodo efficace per le riforme istituzionali è sicuramente importante. Se finora i tentativi di revisione organica del sistema non sono andati a buon fine, una parte di responsabilità è da rintracciare nelle procedure seguite: in alcuni casi esse non sono state in grado di garantire la necessaria efficacia del circuito decisionale; in altri non sono riuscite a impedire che le tensioni politiche quotidiane interferissero con il processo fino a bloccarlo, né hanno favorito la necessaria convergenza delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Fatta questa doverosa premessa, mi preme dire che comunque, al di là della definizione di un metodo efficace, il vero terreno sul quale si misurerà la capacità riformatrice del Parlamento e del Governo è l’individuazione di soluzioni di merito condivise e adeguate alla sfida che abbiamo di fronte. Il rischio che vedo nelle polemiche di questi giorni, infatti, è che le obiezioni avanzate rispetto alla definizione di un metodo speciale di approvazione delle riforme costituzionali, alcune fondate altre strumentali, nascondano una malcelata idea che sia meglio non riformare nulla. Ma questa strategia di dissimulazione dei più profondi istinti conservatori deve essere smascherata. Se qualcuno ritiene che l’assetto costituzionale disegnato nel 1947 sia perfettamente adeguato all’Italia di oggi lo dica chiaramente e si apra il confronto pubblico sul punto.
In questa prospettiva, le indicazioni contenute nella Relazione del Gruppo di lavoro sulle riforme istituito dal Presidente della Repubblica rappresentano un contributo per tentare di definire un percorso che ponga la revisione costituzionale, per quanto possibile, al riparo dalle tensioni politiche contingenti. In particolare, la relazione sottende tre ordini di obiettivi che ritengo sia comunque necessario considerare adeguatamente.
In primo luogo, quello di coinvolgere soggetti esterni al Parlamento, legati al mondo accademico e ad altri ambiti istituzionali e sociali, nell’opera di attenta valutazione ed elaborazione dei progetti di riforma.
In secondo luogo, quello di definire un iter procedurale che consenta di impostare da subito e contestualmente un lavoro comune dei due rami del Parlamento, in grado di allargare le basi del consenso e sciogliere i principali nodi politici prima che essi emergano compromettendo, come accaduto in passato, il compimento del processo di riforma.
In terzo luogo, il metodo prospettato è volto a potenziare significativamente la partecipazione democratica. Si prevede infatti l’attivazione di una procedura referendaria, da articolare in base ad ambiti di materia omogenei, per confermare il consenso popolare sulle leggi di revisione costituzionale anche qualora approvate con la maggioranza dei due terzi.
Sulla base di queste premesse la Relazione ipotizzava l’istituzione di una Commissione redigente mista, costituita su base proporzionale da parlamentari e non parlamentari. La proposta ha attirato l’attenzione di molti commentatori che hanno sollevato perplessità di carattere giuridico e procedurale.
Quanto alle prime, sono state evidenziate le criticità connesse al ruolo che rivestirebbero nel processo di revisione costituzionale soggetti estranei al Parlamento, che pur privi di legittimazione democratica sarebbero stati dotati di poteri legislativi (d’iniziativa e deliberazione), al pari dei componenti parlamentari della Commissione.
Sul piano procedurale è stata invece rilevata la questione delle competenze da assegnare eventualmente alla Commissione nelle more dell’approvazione della legge costituzionale che ne sancirebbe la formale istituzione, e delle possibili sovrapposizioni e interferenze che potrebbero determinarsi tra l’organismo e le Commissioni Affari Costituzionali dei due rami del Parlamento. Taluni hanno anche segnalato un’asserita compressione delle prerogative parlamentari che deriverebbe dall’adozione di modalità di esame in sede redigente.
Si tratta di profili d’indubbia complessità e delicatezza, che per alcuni aspetti appaiono fondati e che dovranno essere adeguatamente esaminati in sede parlamentare. Ciò al fine di definire un iter che da un lato sia nella sostanza rispettoso dei principi che governano il processo di revisione di una Costituzione democratica e dall’altro, per quanto possibile, soddisfi le esigenze cui prima facevo riferimento.
Fine ultimo di tale esplorazione è individuare un percorso che oltre a favorire il raggiungimento di una larga intesa tra le forze politiche presenti in Parlamento, sappia assicurare un pieno esercizio della libera sovranità del popolo combinando assieme, e valorizzandole, le componenti della democrazia rappresentativa, della democrazia diretta e della partecipazione popolare, coinvolgendo nel processo di riforma le migliori energie e risorse politiche, istituzionali, sociali e culturali del Paese.
Il futuro della nostra democrazia riguarda tutti. In questo senso, ritengo sarebbe opportuno attivare una grande procedura pubblica di consultazione, finalizzata a valutare spunti e riflessioni sulle materie in discussione. Tutto ciò, ovviamente, attraverso una procedura rigorosa già sperimentata prima di me dai ministri Brunetta, Barca e Profumo.
Per garantire il “controllo democratico” sul processo riformatore, infine, si può prevedere che in ogni caso la legge o le diverse leggi di revisione costituzionale approvate dal Parlamento vengano sottoposte a uno o più referendum confermativi popolari – con quesiti distinti per materie omogenee – a prescindere dalla maggioranza ottenuta in sede parlamentare.
All’esito di tale approfondimento, dovrà essere delineato un percorso delle riforme in grado di superare le difficoltà tecniche e le obiezioni politiche e di produrre finalmente il risultato da tutti auspicato. L’unica cosa che il Governo non è disponibile a fare, e mi auguro non lo sia nemmeno il Parlamento, è “cincischiare” sulle questioni di metodo per arrestare il cambiamento.
Mi avvio a concludere. Il percorso che il Parlamento e le forze politiche in esso rappresentate hanno davanti si presenta inevitabilmente complesso e non privo di ostacoli. Conforta tuttavia sapere che è diffusa la consapevolezza di come un fallimento non gioverebbe a nessuna delle forze parlamentari ma avrebbe l’unico effetto di screditare l’intera classe politica. Se terremo tutto ciò ben presente, credo che il lavoro che ci attende nei prossimi mesi potrà essere utile non per aggiungere un ennesimo capitolo al libro sui tentativi di riforma costituzionale nel nostro Paese, ma per garantire finalmente ai cittadini un assetto istituzionale più efficiente, più moderno e, soprattutto, più democratico.