Pubblicato su la Repubblica
29.8.2014
QUEI PUNTI CRITICI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE
Alessandro Pace
Nell’immediatezza dell’approvazione del d.d.l. Renzi-Boschi, il Ministro delle Riforme Boschi ha ammesso la possibilità che la Camera ne migliori il testo. Dal canto suo il senatore Calderoli, relatore di minoranza, si è detto certo che molte cose dovranno cambiare perché, così com’è, «la riforma non gira». Date queste premesse, sembra opportuno segnalare taluni punti critici. Tuttavia non tratterò specificamente il punto più dolente, vale a dire la sproporzione del numero dei deputati rispetto a quello dei senatori e la conseguente concentrazione di poteri in favore della Camera dei deputati, in quanto la conseguenza di tale sproporzione – l’inesistenza di adeguati contro-poteri – costituisce un vero e proprio “strappo” del costituzionalismo, che è stata unanimamente e ripetutamente criticata anche su questo giornale.
Inizio da un profilo generalmente sottovalutato (non però da Lorenza Carlassare), e cioè che in una democrazia liberale la legislazione in senso lato (leggi, decreti-legge, regolamenti ecc.) rinviene la sua legittimità nel “mandato”, diretto o indiretto, che gli organi e gli enti a ciò abilitati hanno ricevuto dal popolo sovrano (articolo 1 della Costituzione). E quindi, se la “riforma” attribuisce al Senato la funzione legislativa ordinaria – ancorché con limiti e condizioni – e la stessa funzione di revisione costituzionale, è inconcepibile che il Senato non venga eletto a suffragio universale. Anzi, a stretto rigore, è «persino fuori di luogo che possa essere definita “elezione“ una designazione dei senatori che sarà compiuta, in ogni Regione, da poche decine di consiglieri e che sarà limitata agli stessi membri dei consigli regionali» (così Stefano Merlini).
Secondo. Grazie anche all’Italicum il potere finirà per essere conferito, senza contrappesi, alla coalizione che conseguirà il premio di maggioranza alla Camera dei deputati, e quindi al suo leader. La Camera eserciterà infatti, in esclusiva, il rapporto fiduciario col Governo; eserciterà quasi esclusivamente la funzione legislativa ordinaria; inoltre, grazie alla sproporzione del numero dei deputati, sarà la Camera, praticamente da sola, ad eleggere il Presidente della Repubblica nel Parlamento in seduta comune. La soluzione “prudenziale” approvata dal Senato, secondo la quale, a partire dall’ottava votazione, poco più di 320 voti sarebbero sufficienti per eleggere il Presidente della Repubblica, non risolve il problema, potendo una maggioranza coesa facilmente oltrepassare quella soglia. Due sembrerebbero le soluzioni accettabili: o eliminare drasticamente la possibilità dell’elezione a maggioranza dei componenti oppure aumentare il numero dei senatori a 200, abbassando il numero dei deputati a 400. Non convince invece la proposta di integrare gli elettori con “non” parlamentari. In primo luogo perché gli elettori “aggiunti” dovrebbero essere almeno 215 per mantenere l’attuale giusta proporzione tra Camera e Senato; in secondo luogo, perché notevoli sono le difficoltà pratiche che presenta la scelta delle categorie di soggetti da coinvolgere. Ad esempio, se la scelta degli elettori “aggiunti” cadesse su componenti dei consigli regionali e/o comunali – come da taluni suggerito – vi sarebbe il rischio di discriminare irrazionalmente i consigli esclusi, il che potrebbe essere evitato solo con un complicato mega-sorteggio che coinvolgesse tutti i componenti della categoria prescelta.
Terzo. L’articolo concernente l’elezione dei giudici costituzionali è mal formulato non prevedendo esplicitamente, come quello in vigore, che l’elezione dei giudici costituzionali debba essere effettuata dal Parlamento in seduta comune. Pertanto poiché l’articolo 55 della Costituzione sancisce che «Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione», ne segue che, se la norma non venisse corretta, Camera e Senato eleggerebbero da soli, a maggioranza dei loro componenti, tre e due giudici.
Quarto. Ammesso pure il superamento del bicameralismo perfetto, deve però essere sottolineato che ci sono “tipi” di legge che non possono essere riservati alla sola Camera. E’ il caso delle leggi di amnistia e di indulto; delle deliberazioni (abbiano o meno la forma della legge) concernenti il conferimento al Governo dei poteri necessari nelle situazioni assimilabili allo stato di guerra (vedi Iraq e Siria); delle leggi di conversione dei decreti legge (ciò che, anzi, sarebbe nella logica del d.d.l. Renzi-Boschi che si preoccupa degli abusi della decretazione d’urgenza!). Altrettanto dovrebbe dirsi per alcune “materie” che “toccano” la vita quotidiana di tutti i cittadini – penso alla disciplina della cittadinanza e all’istruzione scolastica e universitaria – per le quali sembrerebbe doveroso il procedimento bicamerale.
Sottolineo infine la contraddizione tra il conferimento al Senato del potere legislativo in materie di interesse generale – quali ad esempio la disciplina del referendum popolare, delle minoranze linguistiche, della famiglia – e la limitazione del potere d’inchiesta del Senato alle sole «materie di pubblico interesse concernenti le autonomi territoriali». Poiché il potere d’inchiesta è sempre essenzialmente strumentale all’esercizio di competenze materiali, ne segue che se sussiste, come in effetti sussiste, un’attribuzione di competenza legislativa al Senato su date materie, è irrazionale che il relativo potere d’inchiesta venga limitato alle sole materie d’interesse locale.