Pubblicato su Il Fatto Quotidiano
di Alessandro Pace
In un articolo pubblicato ieri (Chi ha paura delle riforme) – che ha un titolo che più sbagliato non potrebbe essere – Michele Ainis critica i sostenitori dell’inderogabilità dell’art. 138 Cost., in quanto, a suo parere, il d.d.l. cost. n. 813 AS (poi d.d.l. cost. n. 1359 AC) si limiterebbe, se venisse approvato, ad una semplice manutenzione della nostra Legge fondamentale. Per Ainis, la procedura speciale prevista dal d.d.l. cost. n. 813 non si applicherebbe al titolo VI della II parte della Costituzione («il sistema delle garanzie»); l’approvazione spetterebbe comunque alle Camere; i referendum saranno tanti quanti i capitoli costituzionali che verrebbero riformati (bicameralismo, forma di governo, regioni ecc.); infine sulle future leggi costituzionali approvate con le “nuove” regole gli elettori potrebbero comunque potersi esprimere con referendum. Alla domanda retorica «Dov’è quindi la ferita della legalità costituzionale?», egli si risponde: «In una modesta compressione dei tempi del dibattito nonché del potere d’emendamento dei singoli parlamentari», ma tali limitazioni sarebbero compensate dall’ampliamento delle possibilità referendarie.
A parte l’obiezione di fondo che le norme procedimentali – che costituiscono l’essenza della democrazia – non possono essere applicate in modo parziale o graduale, né possono essere bilanciate con altri valori (e quindi l’art. 138 non può dirsi rispettato solo perché è stata ampliata la possibilità di richiedere il referendum!), le cose non stanno così.
Il d.d.l. cost. n. 813 viola manifestamente l’art. 138 là dove conferisce la funzione referente ad un unico Comitato (e non alle Commissioni di Camera e Senato); attribuisce al Governo un ruolo determinante nell’approvazione delle future leggi di revisione (ancorché la revisione costituzionale esuli dall’indirizzo politico di maggioranza); prevede un crono-programma dei lavori (il quale contrasta con i “tempi lunghi” caratteristici delle leggi di revisione); riduce da tre mesi a quarantacinque giorni l’intervallo tra la prima e la seconda deliberazione per l’approvazione delle leggi costituzionali. Infine estende abnormemente le materie costituzionali potenzialmente soggette a revisione.
Oggetto delle possibili future revisioni previste dal citato d.d.l. sono infatti i titoli I, II, III e V della Parte II della Costituzione, e cioè tutte le norme relative al Parlamento, al Presidente della Repubblica, al Governo e alle Regioni, Province e Comuni, nonché – come improvvidamente modificato dal Senato e dalla Camera – le «disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali strettamente connesse» a tali titoli. Il che significa – contrariamente a quanto opina Ainis – che potrebbero essere coinvolti anche i titoli IV (Magistratura) e VI (Garanzie costituzionali). In pratica più di 69 articoli nei quali potrebbero, tra l’altro, rientrare la reintroduzione dell’autorizzazione a procedere; la modifica della disciplina del referendum abrogativo e dei decreti legge; l’eliminazione della maggioranza dei due terzi per l’approvazione delle leggi di amnistia e di indulto; l’istituzione di una Corte di disciplina per tutti i magistrati.
Materie, tutte queste, alle quali vanno aggiunte la possibile modifica della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo, che originariamente erano indicate come le sole materie passibili di revisione nell’ambito dei titoli I, II, III e V della Parte II.
Le Camere, da un lato, hanno quindi escluso che le norme modificabili dei titoli I, II, III e V debbano riguardare esclusivamente la forma di Stato, la forma di governo e il bicameralismo, dall’altro hanno addirittura esteso l’oggetto delle possibili revisioni alle «disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali strettamente connesse». E basterebbe ricordare quello che il Presidente Thomas Jefferson diceva sarcasticamente sulle possibilità interpretative della «necessary and proper clause» (art. I sez. 8^ Cost. USA) per rendersi conto che quella prevista dal d.d.l. n. 813 se non è un’autostrada per le riforme, molto vi somiglia.
In altre parole, le Camere hanno talmente ampliato la sfera delle possibili riforme costituzionali da rendere dubbia la possibilità che le future leggi di revisione possano essere effettivamente omogenee e autonome dal punto di vista del contenuto, il che era invece possibile nell’originale d.d.l. governativo che si limitava a prospettare la modifica della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo (e cioè quelli che Ainis chiama i “capitoli costituzionali”, che però sono nel frattempo spariti).
In conclusione con il voto di martedì scorso – che non poteva non suscitare la disapprovazione delle sparute opposizioni – le Camere hanno trasformato il potere di revisione del Parlamento repubblicano in un eversivo potere costituente, in forza del quale, con le future leggi costituzionali, esse potrebbero modificare pressoché l’intero impianto della Parte II della Costituzione (l’ordinamento della Repubblica).
E ciò hanno fatto senza avvertire, dal punto di vista politico, che allargando l’ambito delle materie passibili di revisione esse hanno spianato la strada al referendum contro l’approvazione definitiva della legge costituzionale, che immancabilmente verrebbe richiesto da quanti da tempo si battono per il rispetto puntuale dell’art. 138, e non perché abbiano paura delle riforme del bicameralismo, della riduzione del numero dei parlamentari e della stessa della forma di governo (sempre che sia garantita l’esistenza dei contropoteri, come giustamente sottolineato dal Presidente Napolitano nel discorso tenuto alle Camere riunite il 23 gennaio 2008 in occasione del sessantennio dell’entrata in vigore della nostra Costituzione).